887 di Robert Lepage, la recensione dello spettacolo

© Érick Labbé
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887 di Robert Lepage è ironico, poetico, modernissimo ma senza mai dimenticare il passato. La memoria, questa sconosciuta, potremmo dire. Tentiamo di recintarla, digitalizzandola, quando invece essa è quanto di più umano e immaginario, con la sua labilità, le sue distorsioni creative, associative. Un palazzo. Un palazzo della memoria, con tanti appartamenti, persone, cose, situazioni, atmosfere, fatti, vita. E proprio un edificio troneggia al centro del palcoscenico nel nuovo spettacolo di Rober Lepage, a Roma per soli quattro giorni fino al 26 settembre al Teatro Argentina per l’apertura della trentesima edizione di Romaeuropa Festival. Un palazzo ad altezza d’uomo, una magica scatola (come il nostro cervello) da cui prende vita il racconto del grande artista del Quebec. 887 è il civico di Rue Murray, dove viveva da giovane con la sua famiglia. Anni di grandi cambiamenti in Europa e nel mondo. Cambiamenti anche sanguinosi, come ricorderà Lepage raccontando della nascita del FLQ (Fronte di Liberazione del Quebec). Una macchina teatrale affascinante, sorprendente e raffinata quella di Lepage, che stupisce lo spettatore ammaliandolo con la delicatezza della sua recitazione, quasi tutta in italiano e in francese, coi sottotitoli, nei momenti di maggior introspezione. Come bambini, siamo incantati da quel plastico animato di cui lui si serve come gli antichi cantastorie facevano con le tele. Sei finestre con tanto di balcone che si illuminano, video che si accendono all’interno, animando gli appartamenti e la memoria del narratore (storyteller, dicono quelli bravi), un plastico che via via si trasforma, struttura mobile e scomponibile, divenendo in un batter d’occhio cucina con frigo, locale notturno, fast food, addirittura l’interno di un taxi. Tassista il papà di Lepage, uno struggente ricordo il suo, odore di fatica e umiltà, che tanto somiglia a quello di ognuno di noi. Schegge non impazzite di un’intera vita, condita da quel calore, da quella sensazione fisica che nessun dispositivo potrà mai restituire. Ma li usa eccome, nel suo spettacolo, web cam, i-phone, video, che diventano il suo sguardo sul passato, geniale. Avete mai pensato che dentro degli scatoloni, durante un trasloco, potessero vivere momenti della vostra esistenza? Ecco, Lepage ci fa entrare dentro quegli scatoloni, veri, sul palco, con il suo telefonino calato dall’alto, e rivedere sì la sua infanzia, i suoi Natali passati con gli zii, ma anche i nostri. Ci racconta ma ci insegna, con leggerezza studiata alla perfezione, a non disperdere la memoria e a non sottovalutare la vita in un condominio, apparentemente trascurabile. Un palazzo è un Paese, un mondo.

© Érick Labbé
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Le differenze, le contraddizioni, i contrasti, sono gli stessi, in un dato periodo, che caratterizzano quel momento storico. E poco importa, sinceramente, se lui racconta del Quebec e della genesi della rivolta francofona contro il Canada anglofono. Perché il suo spettacolo non ha tempo, pur situandosi in un preciso luogo ed arco temporale (1960/1970). Un’evocazione, più che rievocazione, della memoria personale e collettiva, politica. Momenti commoventi si alternano ad altri umoristici, tra proiezioni videofotografiche, momenti di teatro di figura con l’ausilio di tecnologie (il discorso di un De Gaulle – bambolina dal taschino della giacca di Lepage che la riprende con la webcam), scenografie cangianti, un’infinita scatola cinese. Proprio come la nostra memoria. Toccante il finale, quando finalmente lui ricorda quel poema difficile da memorizzare e da recitare in un festival di poeti, escamotage drammaturgico da cui parte tutto il racconto, e allora la delicatezza che fino a quel momento aveva contraddistinto lo spettacolo, quasi sottovoce anche le musiche, viene scossa dalla rabbia del testo di Speak White di Michèle Lalonde (esortazione sprezzante con cui gli inglesi si rivolgevano ai franco-canadesi) e dalla recitazione potente, inaspettata e appassionata. Spettacolo atipico alle nostre latitudini e forse troppo lungo per le nostre abitudini. Sicuramente interessante. Un grande gioco, serissimo, come il teatro che Lepage ama e del quale ci rammenta l’origine in “ogni gioco d’ombra di un bambino”. Da vedere. Voto: [usr 4]

 

Roma, Teatro Argentina. Dal 23 al 26 settembre 2015

887: Testo, Concezione, Regia, Interpretazione Robert Lepage.

Una produzione di Ex Machina. Traduzione italiana: Elisa Lombardi; foto di Érick Labbé.

Tutti i credit (scarica qui)

 

 

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