L’Isis, i giochi di potere e l’intelligence europea

La situazione che viviamo, oggi, a causa dell’Isis e più in generale del terrorismo islamico, è stata sottovalutata per lunghi anni. A nulla sono serviti ricerche in materia e avvertimenti; sembrava non dovesse accadere nulla, non a noi. Del resto tutti ragioniamo nello stesso modo, è una specie di difesa dall’ignoto e dall’insicurezza. Per troppo tempo siamo stati distratti da altro, presi dalla nostra quotidianità; ora rischiamo di fare la fine dei capponi di Renzo Tramaglino. Arrivano nuove “bacchettate” da parte del Financial Times e seri studi come quello di Alessandro Orsini, “Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli” (Rizzoli, 2016), un saggio che si basa sui fatti, sulle strategie di conquista del califfato e sulla condizione geopolitica in cui questo vive e prospera. Andiamo con ordine: il Financial Times si chiede come mai i servizi di sicurezza belgi non siano stati in grado di fermare gli attacchi terroristici e se siano all’altezza di questo compito. Paesi come la Francia, l’Inghilterra e l’Italia hanno a disposizione intelligence di ottimo livello (ebbene sì, anche l’Italia, benché alcuni si ostinino a dichiarare il contrario. Di più: i nostri servizi segreti sono tra i migliori in Europa). Insomma, il Belgio rischia di diventare (e forse lo è già) il punto debole nella rete dei servizi segreti europei. “L’avventurosa” cattura di Salah Abdeslam, in effetti, potrebbe avvalorare questa ipotesi. Non solo: secondo un’indagine del quotidiano “Il Giornale” lo scorso anno ben 440 foreign fighters sono partiti proprio dal Belgio alla volta dell’Iraq e della Siria. Certo, credere che questo sia solo un problema belga fa parte di una visione limitata di un problema ben più ampio che parte dall’Islam radicale penetrato nei gangli delle nostre nazioni, a tutti i livelli. Tutti i più grandi giornali del mondo e, soprattutto, gli analisti politici, concordano sul fatto che i servizi di intelligence europea dovrebbero iniziare a “dialogare”, a collaborare seriamente (si è parlato anche della nascita di un corpo di 007 europei ma, vista la mancanza di comunicazione tra quelli che ci sono già e tra le stesse nazioni, pare più un’utopia, almeno per ora). Non possiamo più far finta di non vedere: ci servono uomini, mezzi, persone capaci di studiare il problema e affrontarlo di conseguenza, senza lasciar passare il tempo, errore madornale in questi casi.

Il Financial Times sottolinea anche il fatto che tra i combattenti del califfato vi siano cittadini musulmani provenienti da diverse nazioni europee che in questi Paesi sono nati, hanno studiato e vissuto, di cui conoscono lingua (ovviamente a livello di parlanti nativi) e usanze, di cui possiedono la nazionalità, magari da due generazioni. Dunque la casistica generale vede i seguaci dell’Isis nati e cresciuti nei diversi Paesi arabi (alcuni, però, possono aver studiato in Europa); i foreign fighters convertiti; i combattenti musulmani che lavorano, studiano in Europa o negli Stati Uniti (magari da anni o da generazioni, figli in tutto e per tutto delle nazioni in cui vivono) ma decidono di unirsi alla battaglia del califfato. Ce ne sono migliaia, però occorre capire quale “molla” scatti nella testa di queste persone, spingendole a rinnegare la loro vita in nome di una guerra all’Occidente che, spesso, li ha visti nascere. Le motivazioni variano sia dal punto di vista individuale che da quello dei gruppi suddetti. Dovremmo, però, chiederci cosa non abbia funzionato nella crisi tra Islam e Occidente che queste persone si trovano a dover risolvere, sentendo lo “scontro” tra due identità differenti e percepite in contrasto tra loro. In Italia si registrano diversi casi di foreign fighters, soprattutto nel Nord. Si calcola, però, che la maggior parte provenga da Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Un’indagine del “The Soufan Group”, centro di ricerche con sede a New York, ha stimato che lo scorso anno siano partiti dall’Europa circa 5000 aspiranti combattenti, tutti diretti, come già visto, in Siria e Iraq. Persone in grado di evadere controlli, di andare e venire da una sponda all’altra del Mediterraneo, come è già accaduto nei recenti attentati.

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Per capire ancora meglio questo fenomeno può esserci d’aiuto il saggio di Alessandro Orsin, “Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli” (Rizzoli, 2016). Il titolo è già una dichiarazione d’intenti: spiegare in che modo si sia formato lo stato islamico, cioè senza alcun tipo di opposizione né da parte occidentale, né da parte dei Paesi arabi. Nel primo caso Unione Europea, Russia e Stati Uniti sono rimasti a guardare l’evolversi delle dinamiche geopolitiche in Siria, Iraq e Libia, tante volte frutto di azzardate decisioni strategiche precedenti finché la situazione non è del tutto sfuggita di mano. Nel secondo caso dobbiamo, invece, fare i conti con quelle nazioni che, in maniera più o meno evidente, finanziano al-Baghdadi e il suo esercito. L’Isis è ben conscia della sua inferiorità numerica e militare, per questo ha tutto l’interesse a evitare uno scontro aperto. Di fatto ha conquistato un potere basato sul vuoto politico e sull’immobilità occidentale. L’autore del saggio, Alessandro Orsini, direttore del Centro per lo Studio del Terrorismo all’Università “Tor Vergata” di Roma, ha analizzato tutti gli attentati dei terroristi islamici negli ultimi anni, i luoghi colpiti, le biografie dei kamikaze e dei loro capi e le reazioni europee e americane ai fatti. Comparando i dati, insieme alle conquiste di al-Baghdadi, Orsini ci spiega che questo apparente potere dell’Isis che si tramuta, però, in terrore reale, non è figlio di chissà quale machiavellica strategia politica, né di invincibili strumenti di guerra, bensì della paura e di giochi politici mirati a mantenere un determinato status quo tra le nazioni, fatto di interessi politici ed economici. Per esempio la Siria è una pedina fondamentale tanto per gli americani quanto per i russi. Gli Stati Uniti, però, si guardano bene dal fare qualunque azione che, in un modo o nell’altro, possa favorire l’avversario storico e viceversa. Questo significa aggirare qualunque possibilità di collaborare, sprecando tempo e risorse in una “battaglia” che, ora, non ha ragion d’essere (i capponi di Renzo si ripropongono anche in questo caso). Orsini, poi, ci spiega il motivo per cui tanti giovani sono attratti dalla folle ideologia dell’Isis. Cosa li spinge a lasciare la loro vita per andare a morire? Come avviene il processo di radicalizzazione dell’Islam? Ancora una volta l’autore parte dalle biografie degli attentatori che hanno seminato morte nelle ultime stragi. L’unico sistema per comprendere lo sviluppo e i punti deboli del fenomeno terroristico islamico (non solo inerente all’Isis, ma anche agli altri gruppi come Boko Haram, per esempio) è osservare e comparare a i dati a nostra disposizione. Solo così si possono ricavare informazioni utili da convertire in azioni strategiche. Ciò che non può mancare ora è la volontà di neutralizzare chi vorrebbe cancellare le nazioni europee dalle cartine geografiche e i diritti umani dalle nostre vite. Una volontà che non può sottostare ai giochi di potere o agli equilibri di convenienza, tantomeno alla chiacchiere vuote. Per questi ci sarà tempo. Se non agiamo adesso, invece, non avremo più né tempo né possibilità di scelta.

 

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