Nick Drake, quando uno spot rilanciò l’album Pink Moon

Nick Drake1Scrivere dell’anniversario di morte di Nick Drake vuol dire tornare con la mente alla prima volta in cui si ascoltò l’album “Pink Moon”, di quando lo acquistammo per caso e sbadatamente in un negozietto in Corsica, diversi anni fa, a pochi euro, per poi ascoltarlo rapiti per tutte le settimane successive. Increduli di come un disco del genere possa esserci sfuggito per così tanto tempo. L’intempestività, d’altronde, ha segnato immancabilmente la carriera e l’intera vita di questo eccezionale autore inglese, così intriso di malinconica “britannicità” da esserne stato sopraffatto a soli 26 anni, il 25 novembre 1974. Estremamente taciturno, estremamente schivo e perennemente chiuso in se stesso, Nick Drake non è il classico maledetto o dannato del rock, un reietto della società degli anni ’60, ignorato e malvoluto dalla sua famiglia. Al contrario, è forse stato il più coccolato, da tutto e da tutti, il più atteso, il più protetto. Madre, padre e sorella amorevoli, colleghi perennemente pronti a difenderlo, una casa discografica, la Island Records, impegnata su tutti i fronti a farlo conoscere attraverso interviste, concerti, incontri promozionali. Erano tutti per lui. Ma era lui a non voler nessuno. Detestava esibirsi in pubblico, ancor più concedersi ai giornalisti.

E se per i primi due album, “Five Leaves Left” del 1969 e “Bryter Layter” del 1970, aveva accettato di collaborare con altri musicisti, per “Pink Moon”, il suo epitaffio del 1972, volle come compagna e spettatrice solo una chitarra acustica, di contorto alla sua voce struggente. Registrando il disco in due sole notti per un totale di 11 tracce e poco più di 28 minuti di musica. Ridicolo, per l’epoca. Col risultato che questo disco fu dimenticato subito dopo la pubblicazione, schiacciando ulteriormente l’ego già a terra di Drake, malandato dall’accoglienza a dir poco tiepida riservata da stampa e pubblico ai suoi primi lavori.

Nick Drake

Una fragilità che il consumo estremo di cannabis rese una vera e propria trappola. La mancanza di successo della sua musica fece il resto. Nick Drake appartiene a quell’esercito di incompresi di cui la storia del rock è costellata, individui che, come nel suo caso, neanche una morte prematura ha contribuito a togliere dall’oblio. La cosa triste è che, nel 2000, ci ha pensato la Volkswagen a farlo riemergere dall’ombra utilizzando “Pink Moon” come colonna sonora dello spot di una Cabrio decappottabile. Risultato: vendite del disco più depresso di Drake impennate da 6000 a 74000 copie. Intempestivo e inappropriato, ma dannatamente efficace. Certo, già nel 1997 il cantautore inglese si guadagnò per la prima volta la copertina di una rivista, Mojo, che dedicò un lungo articolo sulla sua carriera. Ma Drake dal giugno del 1970 aveva smesso di credere al successo, da quando cioè decise che non si sarebbe più esibito in pubblico. Amici e familiari ricordano come, se prima era una persona silenziosa, adesso si esprimesse a monosillabi. Si rintanò nel suo appartamento londinese, poi tornò addirittura a casa dei suoi genitori, a Tanworth-in-Avon, degnandoli raramente di una parola.

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Dal 1972 in poi non compose praticamente più nulla, se non 4 o 5 pezzi usciti poi in raccolte postume. “Era pieno di musica, ma non riusciva più a farla uscire”, ricorderà il padre di Nick, Rodney, in un’intervista. La morte, forse il suicidio, del musicista a causa di un’overdose di Tryptizol, un antidepressivo, fu un epilogo che in molti si aspettavano ma in molti altri no, a cominciare dalla madre Molly. Sul comodino, accanto a una copia de “Il Mito di Sisifo” di Camus, neanche un biglietto d’addio. “Come se volesse che di lui – afferma la mamma – non restasse nulla tranne le sue canzoni”. Molto di più, in realtà, è rimasto di Nick Drake, oggi. L’opera di riscoperta del cantante, tra gli anni ’90 e il nuovo millennio, ha portato migliaia di nuovi fan e influenzato tantissimi artisti moderni, le sue canzoni sono state coverizzate, i magazine ricordano immancabilmente anniversari di dischi e di morte. Intempestivo. Ma dannatamente meritato, per un ragazzo che si sentiva “più cupo del mare più profondo… Più debole dell’azzurro più pallido” e il cui più grande rimpianto fu quello di non essere riuscito a farsi capire dalla gente a cui voleva parlare.

 

Paolo Gresta

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