Henri Cartier-Bresson, la recensione della mostra di Roma

©Henri Cartier-Bresson
©Henri Cartier-Bresson

Parlare di “mostra definitiva” può sembrare forse eccessivo, ma quella allestita al Museo dell’Ara Pacis di Roma in onore di Henri Cartier-Bresson ha tutti i connotati per definirsi tale. Sono più di 500, infatti, le opere esposte del grande maestro della fotografia mondiale, tra scatti, dipinti, film, disegni e manoscritti, molti assai rari, alcuni inediti, a coprire un arco di tempo che va dalla fine degli anni ’20 del secolo scorso fino alle soglie del 2000. Non è un caso che Cartier-Bresson venisse soprannominato “l’occhio del secolo”: nella sua lunghissima carriera, l’artista francese ha toccato i quattro angoli del globo, facendosi testimone della Guerra Fredda, della Guerra Civile Spagnola, della Seconda Guerra Mondiale, fino alla liberazione di Parigi del 1945, dopo essere riuscito a fuggire dai nazisti nel ’40. Cartier-Bresson documenta tutto attraverso il suo obiettivo e la mostra, organizzata dal Centre Pompidou di Parigi in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, ripercorre l’affascinante evoluzione artistica di uno dei più grandi interpreti del ‘900.

©Henri Cartier-Bresson
©Henri Cartier-Bresson

L’esposizione scandisce la vita professionale del fotografo in tre grandi momenti storici: 1926-1935, in cui Cartier-Bresson incontra per la prima volta la fotografia e rimane estremamente influenzato dall’arte dei Surrealisti; 1936-1946, durante il quale scopre l’impegno politico e inizia la collaborazione con la stampa comunista; e infine 1947-1970, con la fondazione della storica agenzia Magnum assieme a Robert Capa, George Rodger, David Seymour e William Vandivert, fino all’abbandono dell’attività di fotoreporter. Questi tre periodi sono a loro volta suddivisi in nove sezioni, durante le quali è possibile ammirare i lavori del pioniere del foto-giornalismo in Italia, Spagna, Polonia, Messico, Cuba, Marocco, Cina e tantissimi altri luoghi, fino a diventare il primo reporter ad aver fotografato liberamente in Urss dopo la morte di Stalin.

Il percorso espositivo, assai articolato, allestito all’Ara Pacis riflette in effetti la complessa arte di Cartier-Bresson, sviluppatasi sotto il doppio segno della pittura e della fotografia. Dalla forte influenza degli scatti di Eugène Atget sui suoi primi lavori (manichini in vetrina, cumuli di merci, insegne di vecchi negozi) all’odio per quello che definiva il “detestabile colore locale”, scegliendo quindi di fotografare non paesaggi classici, ma bambini per strada, il lavoro degli uomini al porto, la fatica dei rematori. Il ritmo della vita, quindi. Dall’incontro con la “Nuova Visione”, corrente nata dal costruttivismo russo e assimilata dal Bauhaus fino al grande amore per la geometria e successivamente, per il concetto di “esplosivo-fisso”: Cartier-Bresson amava il movimento che dinamizza la composizione e infatti spesso introduceva nelle sue foto passanti che camminavano, bambini che giocavano o ciclisti che pedalavano. Il tutto composto con grande accuratezza come André Lhote, uno dei suoi maestri, gli insegnò duranti gli anni dell’Accademia d’arte.

Oggi, a dieci anni dalla scomparsa del grande fotografo francese, Roma dedica a lui e alla sua Leica 35mm una mostra emozionante, densa e sorprendente, che durerà fino al 25 gennaio 2015 e che documenta il costante lavoro di ricerca e sviluppo che Cartier-Bresson ha portato avanti per quasi tutto il secolo scorso, divenendo uno dei più grandi interpreti del foto-giornalismo e punto di riferimento di tante generazioni di fotografi, professionisti e non.

 

Paolo Gresta

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