Afghanistan: la missione italiana vista da Herat

Brigata "Julia", Militari italiani impegnati in Afghanistan foto © Regional Command West dell’Operazione Nato “Isaf” - Herat
Brigata “Julia”, Militari italiani impegnati in Afghanistan foto © Regional Command West dell’Operazione Nato “Isaf” – Herat

In un’aula quasi deserta, il Ministro della Difesa, Mario Mauro, riferendo alla Camera sull’attentato dei giorni scorsi in Afghanistan, in cui ha perso la vita il bersagliere Giuseppe La Rosa, ha annunciato che è intento del Governo «proseguire la partecipazione alla missione Isaf, concludendola secondo i tempi stabiliti nel 2014». Sull’argomento molte opinioni contrastanti, che vanno avanti da anni, spesso di carattere puramente politico che si contrastano tra impegni internazionali presi e posizione di carattere morale. Ma sul lodevole impegno del nostro Contingente nell’Operazione Internazionale di Supporto alla Pace in una terra così ostile è un riconoscimento ormai declamato da terzi. Il comando della missione è affidato da qualche anno alla Brigata “Julia”. Di come proseguono le attività abbiamo sentito il Colonnello Enrico Attilio Mattina, Capo Cellula Pubblica Informazione e Portavoce del Regional Command West dell’Operazione Nato “Isaf” che direttamente dal ‘Camp Arena’ di Herat.

Continua lo stato di emergenza in Afghanistan, i talebani rivendicano un altro attacco a pochi giorni dalla morte del capitano dei Bersaglieri Giuseppe La Rosa e la situazione sembra non essere tra le più rosee. Quanti rischi ancora per le nostre truppe di pace?

«I rischi ci cono sempre, ma ciò non compromette gli obiettivi della missione che si è trasformata gradualmente dall’inizio del nostro impegno in Afghanistan. Il nostro ruolo in fase di transizione, termine con cui si indica cioè il passaggio delle responsabilità di gestione della sicurezza alle forze di sicurezza afghane da noi ricostituite e addestrate, prevede l’assistenza e la consulenza a esercito e polizia della regione, sempre più autosufficienti, e un cammino di stabilizzazione grazie anche alle azioni di supporto e consulenza che si stanno mettendo in atto in collaborazione con il Governo afghano, affinché si acquisiscano anche le giuste competenze in ambito di governance, sviluppo, organizzazione del sociale».  

“Operazione di Supporto alla Pace”. L’impegno dell’Italia tra risultati ottenuti e speranze disattese. “Missione” fallita?

«Non parlerei proprio di fallimento: il cammino, in questi dieci anni, ha dato ottimi risultati. Basti pensare che attualmente, grazie alle nostre attività di supporto a favore delle Afghan National Security Forces, la loro autonomia nel condurre le operazioni sul territorio  si attesta intorno al novanta per cento, tanto che la responsabilità di 31 dei 43 distretti della regione ovest è transitata alle forze di sicurezza locali, mentre i restanti 12 saranno ceduti presto. Tutto ciò è merito soprattutto del lavoro di personale di Esercito e Marina (Marò) che costituisce i Military Advisor Team che addestrano l’esercito afghano, mentre ai Carabinieri e a elementi dell’Esercito in forza al Police Advisor Team è devoluto l’addestramento delle forze di polizia. Si è conclusa da pochissimo, invece, la missione della Guardia di Finanza, il cui compito era l’addestramento dell’Afghan Border Police. L’Aeronautica Militare di stanza a Shindand segue da vicino lo sviluppo dell’aviazione afghana, addestrando i piloti di elicottero Mi-17 (di costruzione sovietica) e formando le altre figure professionali necessarie al funzionamento di un aeroporto militare».

Quanti uomini sono impegnati, oggi, a supporto del Governo Afgano nel delicato processo di controllo e gestione del territorio?

«Sono circa tremila ed in varie attività. Vi sono due unità di manovra, su base 7° e 8° reggimento Alpini di stanza, rispettivamente, a Shindand e Farah rinforzati da una compagnia su blindati medi Freccia e da una compagnia su corazzati cingolati Dardo oltre che da assetti del 2° reggimento genio e dal battaglione Tonale dell’11° reggimento trasmissioni. Siamo particolarmente impegnati anche sul fronte della ricostruzione e dello sviluppo grazie all’opera del Provincial Reconstruction Team, l’unità militare costituita da specialisti del Multinational Cimic Group di Motta di Livenza e da una componente del 3° reggimento artiglieria da montagna di Tolmezzo per la realizzazione di strutture di base  come scuole, strutture di assistenza sanitaria, rifacimento strade, pozzi e quant’altro  con finanziamenti del Ministero della Difesa italiano».

Per quanto tempo ancora l’Italia sarà al centro delle operazioni di pace in un territorio che sembra ostile al cambiamento?

«La decisione sulla nostra permanenza è di natura politica e spetta al Parlamento pronunciarsi in merito. La popolazione afghana non è ostile al cambiamento e al progresso avviato grazie al nostro pluriennale impegno. Purtroppo una piccola minoranza che osteggia ogni miglioramento per interessi personali continua a essere ostile e causare lutti e danni soprattutto alla popolazione civile ostacolando il processo di crescita e indipendenza del Paese».

Ritornando ad alcuni obiettivi della Missione: dal punto di vista della crescita sociale, indipendenza e competenza della governance di aziende e della stessa struttura dello Stato afghano, quali sono i risultati ottenuti finora?

«Premettendo che il processo è graduale e delicato e che bisogna tener conto di tanti fattori (condizioni economiche, sociali e di sicurezza dei singoli distretti di ciascuna provincia dell’Afghanistan), possiamo dire con soddisfazione che i successi sono lusinghieri e che tutte le azioni sono preventivamente concordate con il Governo. Gli obiettivi realizzati vanno visti anche sotto questo aspetto, il nostro è un lavoro di supporto alle autorità e alle forze di sicurezza afghane, ma il destino ed il futuro di questa nazione sono nelle mani della classe dirigente locale. Sono stati fatti passi da gigante. Nel 2002 l’accesso a strutture sanitarie era limitato al 9% della popolazione, oggi, ad usufruire del servizio, è l’85% della popolazione. 17 milioni di afghani possiedono un telefonino cellulare a fronte di 10mila linee telefoniche fisse nel 2002. 8 milioni di ragazzi, di cui il 40% sono ragazze, frequentano la scuola (tra l’altro con Istituti ed Università di rilievo). In Parlamento il 25% dei seggi è occupato da donne. Sono sempre in crescendo strutture a sostegno delle fasce più deboli, non per ultima, inaugurata qualche giorno fa, una clinica per tossicodipendenti. Opere di bonifica, valorizzazione del territorio, realizzazione di strutture ed infrastrutture sono all’ordine del giorno».

All’Italia, ed in particolar modo ai militari italiani, sono stati riconosciuti non solo ruoli di alta professionalità e competenza, ma soprattutto la grande umanità che contraddistingue i nostri Uomini.

«Possiamo solo prendere atto di ciò che altri hanno detto di noi. Il nostro impegno è caratterizzato dalla professionalità e dall’umanità dei nostri uomini. Poi, che il nostro contributo in questa missione sia stato particolarmente apprezzato, non può che farci onore. Alla base di tutto, c’è il “rispetto”: per il territorio, la loro cultura, le loro tradizioni, il loro credo religioso e quant’altro. Il nostro “genetico” sapersi integrare e capire le esigenze in base alla loro millenaria cultura ci aiuta ad avere un rapporto di stima e fiducia reciproca che rafforza e accelera il processo di indipendenza».

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