Una femminista nell’Harem

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Francesco Hayez – ritratto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso

 

Non credevo ai miei occhi nel leggere la firma di Cristina Trivulzio  Principessa di Belgiojoso su alcune lettere, spedite da Costantinopoli a metà Ottocento, che avevo rintracciato nell’Archivio dei Conti Capasso Torre. Pensai che fossero tracce di una liaison d’amore fra il destinatario, il Conte Federico Torre, attraente Generale di carriera beneventano, e la più affascinante animatrice di salotti politici e culturali della romantica Europa postnapoleonica. Mi sbagliavo. La Principessa gli raccontava le sorprese che stava vivendo nell’esilio in Turchia. Pubblicai l’eccezionale scoperta, e quei fogli sconosciuti svelarono al mondo pensieri e sogni di una donna troppo in anticipo sui tempi.

         Nel 1849, entusiasmata dal fatto che la neonata Repubblica Romana aveva concesso il voto alle donne, Cristina era accorsa dalla sua Milano. Pio IX era in fuga, ma gli vennero in aiuto i francesi di Napoleone III, e toccò al Conte Federico Torre organizzare la difesa di Roma. Fu allora che lei ne conquistò l’amicizia con una idea rivoluzionaria: utilizzare come infermiere le prostitute che per pochi soldi andavano a ‘confortare’ i soldati feriti negli ospedali! Una delle lettere ne dà la motivazione: Che cortigiane s’introducessero negli spedali è cosa nota a tutti. Ma queste donne, che son le meno degne, diventano degnissime quando, tocche di compassione, hanno versata una lagrima sui patimenti di un infelice. Tra scandali e ostacoli, l’originale iniziativa ebbe successo. Ma perché l’originalità dev’essere una virtù per l’uomo, e un difetto per la donna? si chiedeva Cristina.  Bella domanda, diremmo oggi…

Federico Torre
Federico Torre

     Lei incantava i grandi, fece innamorare Balzac e Hugo, Liszt, Bellini e Chopin,  perché era superbamente intelligente e traduceva in realtà ogni pensiero più audace, ignorando i pregiudizi dell’alta società. La sua unica figlia femmina, Maria, non l’ebbe dal Principe Emilio di Belgiojoso suo marito, ma da François Mignet, un francese dai riccioli biondi e dal profilo angelico, di cui si diceva che avrebbe potuto essere l’idolo delle parigine se non fosse stato casto e puro. Da allora, secondo le dame contemporanee, Cristina avrebbe dovuto evitare di vestirsi di bianco. Sta di fatto che Francesco Hayez     – il pittore del celeberrimo Bacio –   ci ha lasciato di lei un Ritratto in abito nero, con qualche gioiello e sguardo interrogativo, figura di eleganza assoluta messa a confronto con la statua di marmo di un’antica dea.

         Costretta all’esilio dopo la caduta della Repubblica Romana, per non rischiare  di essere arrestata evitò anche la Milano austriaca e riparò in Turchia. Le lettere sono datate appunto da Ciaq Maq Oglou, una località presso Ankara      – allora ‘Angora’, la città della lana –    dove visse a lungo con la piccola figlia promuovendo attività produttive e viaggiando in tutto il Medio Oriente a dorso di cammello come scrittrice e giornalista. I suoi scritti cominciarono a demolire i miti nei quali l’immaginario occidentale avvolgeva quelle terre da favola, primo fra tutti il mito dell’harem, luogo di delizie, canti e bagni profumati, popolato da belle fanciulle indolenti e nude, sempre pronte per il loro signore.

         Quando riuscì a introdursi nell’harem del Pascià di Konya, nella Turchia  asiatica, la Principessa rimase esterrefatta. In ambienti senza aperture verso l’esterno le donne erano segregate, inclusa la figlia del Pascià, che per incontrare il marito si appartava in una stanzetta buia: “Figuratevi questi sposi!    – scrive Cristina –    A che serve chiamarsi Fatima, essere figlia di un Pascià e sposa di un Bey se la sua bellezza, che un unico uomo deve vedere, non gli è mostrata che tra quattro mura, a un lume di candela?”. Le povere donne, soggette ad angherie inaudite, l’ascoltavano sconvolte: “Reagite, chiamate in soccorso il vostro senso di dignità, mostrate al Pascià che potete fare a meno del suo… amore”. Ma la risposta era scontata, sconfortante: Quali armi possiamo usare se siamo chiuse in questo harem fin dalla più giovane età e nulla sappiamo di quel che esiste  fuori?”.

         Tornata in Italia, Cristina Trivulzio di Belgiojoso morì a Milano nel 1871, a 63 anni. Al suo funerale non c’era nessuno dei politici dell’Italia che lei aveva contribuito ad unire.

Elio Galasso

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