AIDS, UNA QUESTIONE DI EMOZIONI?

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Un team di ricercatori dell’Università Cattolica di Roma ha scoperto che il virus dell’Aids compromette anche la capacità delle persone con Hiv di riconoscere le emozioni sul volto degli altri, in particolare le espressioni facciali che rivelano paura e felicità.

È il risultato di un lavoro pubblicato sulla rivista open access “BMC Psychology” e condotto dalla dottoressa Eleonora Baldonero, dottoranda presso l’Istituto di Clinica delle Malattie Infettive dell’Università Cattolica di Roma. La ricerca è stata coordinata da Maria Caterina Silveri, responsabile dell’Ambulatorio Clinica della Memoria – Unità Operativa Day Hospital Geriatria dell’Università Cattolica – Policlinico A. Gemelli di Roma. I ricercatori hanno visto che queste defaillance nel naturale sistema di riconoscimento delle emozioni altrui – importantissima capacità umana che consente di provare empatia, ovvero di mettersi nei panni degli altri e capirne le intenzioni – vanno di pari passo con altri problemi spesso lamentati dai sieropositivi, come i deficit di memoria a breve termine e più generali disturbi cognitivi. Ciò suggerisce che esiste una relazione tra la capacità di riconoscere le espressioni facciali e altre abilità cognitive, che dipendono dall’attività di strutture cerebrali complesse come l’amigdala (che è un’area importante per l’emotività, dove nasce ad esempio la sensazione della paura alla base della percezione dei pericoli).

«L’aspettativa di vita delle persone con Hiv/Aids è notevolmente aumentata negli ultimi anni grazie alle nuove terapie antiretrovirali, con la conseguente necessità di affrontare alcuni aspetti che riguardano la loro qualità della vita, come le problematiche di tipo neurocomportamentale, che noi abbiamo analizzato nel nostro lavoro per quel che attiene l’emotività», spiega Baldonero. «Abbiamo utilizzato per questo un test che consiste nel chiedere ai soggetti coinvolti nella ricerca di riconoscere le emozioni che venivano espresse attraverso il volto di attori in fotografia (test di Ekman)», afferma Silveri.

Gli esperti hanno confrontato un gruppo di pazienti sieropositivi con un gruppo di soggetti sani di controllo, e osservato che i primi avevano difficoltà a riconoscere la paura “dipinta” sul volto altrui; in genere questa difficoltà, spiega la dottoressa Baldonero, «si accompagna a un deficit della memoria a breve termine, segno che le due funzioni sono in qualche maniera correlate». Inoltre, tra i soggetti sieropositivi, quelli che erano cognitivamente più compromessi nella capacità di prendere decisioni e nell’ apprendimento, presentavano una selettiva difficoltà nel riconoscimento dell’emozione “felicità”.

«I nostri risultati – precisa la professoressa Silveri – hanno indicato che i soggetti Hiv-positivi erano in grado di riconoscere alcune espressioni del volto, ma la maggior parte di loro non riconosceva l’espressione facciale della paura. Questo risultato non trova al momento un’adeguata spiegazione», continua  Silveri.

Si può ipotizzare che questo mancato riconoscimento possa essere legato a tratti personali e psicologici individuali dei soggetti coinvolti nella ricerca, ma la frequenza con cui il fenomeno si osserva nei sieropositivi è troppo elevata per essere riconducibile unicamente al caso. Più verosimile è che si tratti di un’alterazione asintomatica che non si manifesta nella vita quotidiana, ma che emerge soltanto attraverso test specifici. Del resto, una serie di studi in letteratura ha indicato che altri disturbi neurocognitivi (lievi deficit di memoria e attenzione) sono evidenziabili nel 30-40 per cento di soggetti Hiv-positivi solo attraverso test neuropsicologici, non essendo riconosciuti né dal soggetto, né dalle persone che quotidianamente si relazionano con lui.

«Il quesito aperto, a cui oggi non siamo in grado di dare una spiegazione, è se questa alterazione della emotività da noi evidenziata, come pure le alterazioni asintomatiche neurocognitive già note, possano o meno evolvere in forma più evidente di disturbo via via che i soggetti invecchiano», sottolinea Baldonero.

«Il messaggio che ci sentiamo di dare alla comunità scientifica è quello di considerare nei soggetti Hiv-positivi l’opportunità di monitorare sia gli aspetti neurocognitivi sia quelli più propriamente emozionali», concludono le autrici del lavoro.

 

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